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PROBLEMI DEL MATERIALISMO STORICO 2.0

1. UNA TEORIA DELLA STORIA

Il materialismo storico si presenta come una teoria della storia e strumento di comprensione del presente, ma proprio per questo pone alcuni problemi che devono essere approfonditi. Ciò che segue si propone di richiamare l’attenzione su queste questioni sia nel merito che nel metodo, suggerendo possibili linee di approccio alla loro formulazione ed approfondimento. Quanto al metodo, si intende qui seguire quello scientifico, almeno in linea generale, cioè nella misura in cui è applicabile a contenuti storici. Quindi il presente saggio intende anche vagliare il materialismo storico sottoponendolo al filtro del metodo scientifico e constatare quanto di esso rimane valido, vale a dire se è logicamente coerente e se regge il confronto con l’oggettività, cioè con i dati empirici, oppure deve essere considerato una filosofia della storia, cosa che Marx respingeva recisamente.
Prima di entrare nel merito è necessario richiamare alcune nozioni di carattere generale del metodo scientifico. Occorre quindi ricordare che una teoria non ha bisogno di giustificazioni, ma solo di conferme, il che non significa dimostrazioni. Una teoria non si può dimostrare, perché essa stessa è posta a priori come lo strumento che nel campo considerato fornisce tutte le dimostrazioni come deduzioni dalla teoria. Se queste corrispondono ai fatti si ha una conferma della teoria e i fatti trovano in essa la loro spiegazione. Ma la teoria è costituita da una serie di ipotesi derivate da un insieme di fatti allo scopo di spiegare questi e una cerchia più ampia degli stessi. Ovviamente più sono le conferme, più la teoria è attendibile, ma non vera in senso assoluto, poiché occorre tenere ben fermo che nessuna verifica è di per sé conclusiva, in primo luogo perché può essere sempre smentita da nuove verifiche e poi perché una verifica sulle sole conseguenze non è di per sé probante rispetto all’antecedente, in quanto uno stesso fatto può essere il risultato di più cause diverse. Quindi ogni teoria formale ha una sua legittimità in quanto tale, alla sola condizione di essere logicamente coerente e fattualmente verificabile, ma non può mai essere considerata vera. Quindi una teoria, una volta formulata, può e deve essere applicata alla realtà empirica alla ricerca del maggior numero di conferme possibili, nessuna delle quali è però da considerarsi conclusiva. Neppure in caso di smentita, questo perché essa può sempre essere parzialmente modificata in modo da includere quel caso specifico. Pertanto, l’ultimo criterio di legittimità è probabilistico, peculiarità che, per una teoria storica, il cui contenuto è la vita degli individui, finisce per essere un criterio soggettivo anziché oggettivo, quindi una scelta pratica. Per un comunista il materialismo storico è una scelta di parte, ma rimane pur sempre una teoria, quindi soggetta al vincolo di essere in grado di spiegare o prevedere fatti nuovi.
Precisato questo, le critiche che si possono muovere al materialismo storico dal punto di vista del materialismo scientifico sono di due tipi. Da una parte occorre riconoscere che, dato il carattere del campo d’indagine, il materiale empirico disponibile è sempre limitato, opinabile, raramente esaustivo, e ciò per il fatto che di storia ve n’è una sola, come una sola è l’umanità. Inoltre non si possono fare esperimenti, a meno che non si voglia considerare tale l’intervento attivo e cosciente nella storia. E tanto meno è possibile ripeterli. Ancor più quando, come avviene nel materialismo, si considerano periodizzazioni molto ampie. Ma tralasciamo questo discorso, che porterebbe troppo lontano. Diciamo soltanto che il materialismo storico può vantare conferme significative, in ogni caso più di ogni altra teoria della storia. Anzi, in questo campo, si può considerare l’unica teoria degna di questo nome.
Soffermiamoci invece su un altro tipo di critica. Essa è di carattere formale, in quanto l‘altro aspetto della teoria, dopo il suo rapporto con il materiale empirico, è la sua struttura logica. In particolare una teoria, se vuol essere di qualche utilità, deve essere più semplice dei fatti che descrive. Ma nel materialismo storico mentre la causa delle transizioni è semplice e univoca, cioè lo sviluppo delle forze produttive, la loro dinamica è piuttosto complessa. E’ il caso del passaggio al comunismo che si presenta come un caso particolare, cioè come un evento la cui spiegazione si applica solo a questo caso specifico. Tuttavia, come si è detto, questo tipo di critiche se possono suscitare dei dubbi, non invalidano una teoria in quanto il criterio di verità del metodo scientifico non permette di enunciare verità assolute.
I limiti entro i quali il materialismo storico può essere considerato valido sono quelli di ogni teoria. Una teoria deve essere coerente formalmente e verificabile empiricamente, ciò nella misura più ampia possibile. Poiché il materialismo storico è una teoria, quindi un discorso di portata generale, esso può e deve applicarsi alla storia contemporanea, misurarsi con tutti i dati disponibili e mostrare di essere in grado di interpretarli. Quindi deve potersi applicare al presente e proiettare nel futuro, perché la verifica di una teoria sta proprio in questo, cioè nella la sua capacità di applicarsi a dati nuovi, al di là di quelli su cui è stata elaborata la teoria stessa.
Il passaggio al comunismo è la questione cruciale, perché rappresenta la previsione più importante di questa teoria riguardo la storia futura. E' possibile affermare che il materialismo storico è una teoria che deduce i suoi principi da tutta la storia passata al fine di derivare da questi una ipotesi fondamentale: la fine della società di classe e l’avvento del comunismo. Una teoria che vuole quindi derivare dalla storia delle rivoluzioni passate quella della rivoluzione comunista. Ma la rivoluzione comunista si presenta come un caso a sé fra i mutamenti sociali, in quanto essa pone fine non solo al capitalismo ma a tutto il più ampio ciclo storico delle società di classe. Per cui tale rivoluzione deve avere speciali caratteristiche. Le classi devono essere solo due. Di conseguenza è proprio la classe direttamente antagonista quella che deve operare la transizione. La classe rivoluzionaria deve inoltre essere portatrice di nuove forze produttive. Tutte queste modalità di transizione sono in contraddizione con il materialismo storico, quindi con la storia passata. Pertanto occorre in primo luogo ammettere che la teoria è incompleta e deve essere integrata in modo che la transizione ad opera della classe direttamente dominata sia possibile e che questa classe sia progressiva. Cioè le rivoluzioni proletarie non hanno precedenti, quindi, poiché le leggi generali del materialismo storico sono dedotte dai precedenti storici, esse devono costituire una eccezione rispetto a tali precedenti. Sostanzialmente nella versione classica la teoria non prevede una rivoluzione comunista. Tuttavia ciò non significa che si debba lasciar cadere la teoria, ma semplicemente che occorre modificarla, cioè interpretare diversamente i dati della storia.

Materialismo storico

Definiti i concetti fondamentali: (D1) divisione del lavoro: cooperazione nella produzione di beni; (D2) forze produttive: produttività del lavoro sociale; (D3) modo di produzione: genere di forze produttive; (D4) classe sociale: insieme di individui che svolge un medesimo ruolo nella divisione del lavoro; e (D5) rapporti di produzione: rapporti fra le classi nella divisione del lavoro, - il materialismo storico è costituito essenzialmente dai seguenti presupposti: (1P) esiste un nesso tra rapporti di produzione e forze produttive tale che gli uni sono determinati dalle altre (principio di oggettività sociale); (2P) i rapporti di produzione sono tendenzialmente statici (principio di inerzia sociale), per cui si trovano sempre in ritardo rispetto ai mutamenti delle forze produttive, in misura tale da ostacolarne lo sviluppo, provocando quelle accelerazioni nell’evoluzione storica che caratterizzano le rivoluzioni sociali; (3P) i rapporti di produzione determinano tutti gli altri. Da questi principi si deducono svariate derivazioni, le più importanti sono le seguenti: per cambiare i rapporti di produzione occorre cambiare le forze produttive, ma ciò non avviene casualmente ma per azione cosciente di una classe che di conseguenza è quella che le possiede in quanto ha la competenza per operare con esse, e quindi ne ha anche la proprietà giuridica. Pertanto, (1C) lo sviluppo delle forze produttive avviene ad opera di una classe sociale specifica, che è la classe egemone e destinata a divenire quella dominante, che nasce e si sviluppa in concomitanza alle forze di produzione di cui è portatrice (principio di soggettività sociale). A causa dell’inerzia sociale si verifica (2C) uno sfasamento tra forze produttive e rapporti di produzione, che determina una percezione falsa di essi, quindi una rappresentazione ideologica (principio della falsa coscienza). (Cfr. Ideologia tedesca, Editori Riuniti, 1983, pp.9, 11, 12, 26-30, 51, 52, 56, 59, 60, 63; Manifesto del partito comunista, I; Miseria della filosofia, Editori Riuniti, 1973, pp.34, 94, 104, 105, 113, 114-122, 141; Per la critica dell’economia politica, Introduzione, Editori Riuniti, 1974, pp.5-6; Grundrisse, Formen).
I principi sono derivati in base ad osservazioni empiriche. Marx perviene a formulare una teoria generale della storia prendendo in esame principalmente la transizione dal feudalesimo al capitalismo, ma anche il precedente passaggio dallo schiavismo al feudalesimo. Nella prima transizione la classe rivoluzionaria è la borghesia ed il settore economico nel quale opera è la grande industria. Quello dominante nella società feudale è invece l’agricoltura, dove il rapporto di produzione fondamentale è quello tra l’aristocrazia dei latifondisti e i contadini nullatenenti, cioè il rapporto di servitù. Ma vi è anche quello, allora secondario ma destinato ad evolversi, che nell’artigianato cittadino e in generale nella borghesia, a quell’epoca ceto feudale, lega maestro ed apprendista. Infatti un nuovo rapporto succede alla servitù, quello capitalistico, cioè il rapporto di lavoro salariato, che la borghesia estende a tutta l’economia, nell’agricoltura sostituendo il rapporto di signoria e servitù con l’affittanza e il bracciantato, e soprattutto nell’industria. Conquistato in tal modo un ruolo egemonico nell’economia, la borghesia può abolire i privilegi dell’aristocrazia, cioè il suo potere politico, non più fondato su un ruolo economico progressivo. Quindi la dissoluzione dell’aristocrazia non fu il risultato delle endemiche rivolte dei contadini. Lo scontro decisivo fu essenzialmente un regolamento di conti fra borghesia e nobiltà, culminato nella Grande Rivoluzione. Tale momento venne ripetutamente rinviato, essenzialmente perché le condizioni storiche non erano mature. I movimenti ereticali del XIII secolo, la Riforma e le guerre di religione nel XVI e XVII secolo, insieme alle rivoluzioni olandese e inglese, preparano tale momento. Ma in tutti questi eventi i contadini ebbero un ruolo marginale.
La decadenza della società antica è il secondo caso esemplare considerato da Marx, ma qui le cose andarono diversamente. Sebbene anche in questa fase le rivolte della classe subordinata, quella degli schiavi, non portassero mai ad un superamento di tale società, essa decadde ad un livello di sviluppo materiale e culturale barbarico nella società feudale, dissoluzione che è il riferimento storico della “comune rovina delle classi in lotta” (Marx, Manifesto) come possibile esito della lotta di classe. La nuova classe dominante venne dall’esterno e si sostituì a quella esistente, senza mutare il modo di produzione, che continuò ad essere fondato sull’agricoltura.

Nel materialismo storico questi cicli storici sono paradigmatici e lo riassumono per l’essenziale. Ma considerando questi dati storici ed integrandoli con altro materiale empirico, si osserva che in tale teoria, se il nesso tra forze produttive e rapporto di produzione è univoco, non si può dire altrettanto per le modalità della transizione. Cioè, viene delineato chiaramente il carattere della società in trasformazione ma non le condizioni della transizione a quella successiva, soprattutto per quanto riguarda il passaggio al comunismo. Come si configura allora in generale la questione della transizione, in particolare quella al comunismo? Chiarire questa questione è di vitale importanza per la teoria, sia sotto l’aspetto pratico, ovviamente, ma anche per quello teorico perché concerne la coerenza e capacità di previsione della teoria, elementi fondamentali per determinarne la validità.
La teoria riduce a sistema tutta la storia finora trascorsa disegnando un grande quadro sintetico da cui emergono alcune tendenze che divengono ulteriori elementi della teoria. Si può innanzitutto affermare che il corso storico è determinato dai modi di produzione finora sviluppati, che a grandi linee sono, nell’ordine, la caccia e raccolta, l’agricoltura e pastorizia, l’industria. I rapporti di produzione materiali corrispondenti sono: il lavoro collettivo (cooperazione semplice), il lavoro servile (schiavismo e servitù della gleba), il lavoro salariato, il lavoro autogestito. Le corrispondenti forme della proprietà, la forma giuridica (sovrastrutturale) dei rapporti di produzione, sono la proprietà collettiva della terra, la proprietà fondiaria privata, la proprietà privata mobiliare, proprietà collettiva del lavoro. Le forme politiche ad essi connesse sono l’organizzazione gentilizia, la città stato (repubblica oligarchica) o l’impero dinastico, lo stato di diritto, l’associazione dei produttori. Le contraddizioni specifiche in cui si articola quella fondamentale, derivanti cioè dall’inerzia sociale, sono quelle tra le diverse forme di proprietà, cioè tra le classi corrispondenti: prima tra proprietà collettiva e proprietà privata della terra, poi tra proprietà mobiliare e proprietà immobiliare, ed infine tra proprietà mobiliare e proprietà del lavoro sociale.
Tali contraddizioni mettono in moto le dinamiche sociali secondo le seguenti fasi. Agli albori della storia troviamo gruppi tribali a struttura gentilizia che vivono in una economia di caccia e raccolta su di un territorio che ciascun gruppo si è appropriato in competizione con altre tribù, terra di cui rivendica collettivamente la proprietà. Con il passaggio all’agricoltura accade che la proprietà collettiva ostacola la messa a coltura del territorio, per cui nasce la proprietà privata, inizialmente clanica, poi sempre più ristretta al capoclan ereditario e alla sua famiglia e infine proprietà privata individuale, che si colloca accanto alla proprietà collettiva o terra comune, ponendosi in contraddizione con essa. Con l’agricoltura nasce anche lo schiavismo, già esistente marginalmente nella famiglia allargata, in quanto ora la terra produce un surplus rispetto alla riproduzione del lavoro impiegato, per cui la forza lavoro acquisisce un valore. Da questi due eventi, apparizione della proprietà fondiaria privata e dello schiavismo, consegue la nascita della società di classe. Prima si ha la sedentarizzazione della tribù, inizialmente come villaggio, poi man mano che si sviluppa la proprietà privata dalla fusione di più villaggi sorge la città fortificata, residenza della classe proprietaria e riparo in caso di guerra, ciò che permette la nascita di un artigianato indipendente dall’economia familiare, e del commercio. Ma tale sviluppo può seguire una linea alternativa, quella dell’industria manifatturiera, che successivamente diviene quella predominante. Con la nascita dell’agricoltura la conquista di un territorio e la sottomissione della popolazione ivi residente permette ai vincitori di appropriarsi una fonte di ricchezza permanente, quindi di stabilirsi sulle terre acquisite. Pertanto nei rapporti tra popoli si passa dalla razzia e sterminio, o cacciata degli sconfitti, all’asservimento dei vinti e all’insediamento permanente dei vincitori nei loro territori. I conquistatori divengono la classe dominante, i vinti che hanno perso la terra e la libertà, continuano a coltivarla per conto dei nuovi proprietari, che si stabiliscono in città dalle quali dominano i villaggi del contado (anche se in un primo tempo possono insediarsi nella campagna). Quindi il modo di produzione agricolo genera come rapporto di produzione dominante il rapporto servile e due classi egemoni: l’aristocrazia latifondista e guerriera, e la classe produttiva, che è in rapporto con la prima nella forma della schiavitù, o della servitù, una schiavitù attenuata, e infine due forme di stato: la città stato e l’impero. L’antagonismo fra le classi si manifesta con ribellioni ricorrenti dei dominati, che però mai giungono a rovesciare l’ordine sociale. La dinamica sociale è invece quella della sostituzione di una classe dominante con un’altra di nuova formazione, in generale in seguito ad una conquista, che espropria quella precedente, in parte fondendosi con essa, ciò che si manifesta sul piano politico come cambio di dinastia, lasciando inalterata o quasi la condizione della classe subordinata e il modo di produzione. Sostanzialmente ancora per lungo tempo etnia e classe sono categorie intercambiabili.
Ciò che segna la fine di tale ciclo storico stagnante è lo sviluppo all’interno di tale formazione sociale di un nuovo fattore economico, la ricchezza mobiliare, sviluppo a sua volta collegato prima all’usura e al piccolo commercio connesso alla divisione del lavoro dei mestieri, infine a una nuova forza produttiva: la divisione del lavoro manifatturiera. Sviluppo che determina l’espandersi del commercio e la nascita del sistema di fabbrica, la generalizzazione del rapporto di produzione salariato e l’affermazione delle classi corrispondenti, la borghesia e il proletariato. Tale nuova forma di ricchezza, generata dalle nuove forze produttive, entra infine in contraddizione con la ricchezza immobiliare, legata alle vecchie forze produttive. Poiché quest’ultima è volta alla produzione di valore d’uso ed al consumo, l’altra all’accumulazione di valore di scambio, il valore di scambio entra in contraddizione con il valore d’uso, cioè si verifica in modo accentuato il fenomeno del ritardo nell’adeguamento del rapporto di produzione allo sviluppo delle forze produttive. Pertanto la borghesia si scontra con l’aristocrazia e nasce la società borghese che infine sconfigge e assorbe la società aristocratica. La borghesia giunge così a realizzare ciò che nessuna rivoluzione agraria era riuscita a ottenere, la fine dell’aristocrazia, ma compie questa impresa instaurando una nuova società di classe. Infatti dopo di ciò il contadino si proletarizza e nasce un nuovo antagonismo tra le classi vittoriose, borghesia e proletariato, cioè tra le nuove forme di proprietà, mobiliare e della forza lavoro.

Schemi di transizione

Da tale quadro empirico si possono trarre alcune generalizzazioni riguardo il carattere delle transizioni, che trovano riscontro nella teoria e pertanto divengono parte integrante di essa. Lo sviluppo delle forze produttive è definito come aumento della produttività del lavoro sociale, aumento a sua volta legato al grado di divisione del lavoro. Questo sviluppo è di due tipi: (D6) sviluppo qualitativo, derivante dalla creazione di forze produttive tecnicamente più avanzate di quelle esistenti; oppure: (D7) sviluppo quantitativo, mediante accrescimento delle forze esistenti, cioè accrescimento di scala (concentrazione) e del numero delle unità produttive. In rapporto alla dinamica delle forze produttive è necessario definire il concetto di trasformazione rivoluzionaria: (D8) transizione rivoluzionaria: quando implica uno scontro tra due classi portatrici di due forze produttive di differente sviluppo qualitativo. Per cui la dinamica sociale si svolge in due modi differenti. Per il principio di soggettività il mutamento del rapporto di produzione richiede l’introduzione di nuove forze produttive, che invece sono ostacolate dalla persistenza del vecchio rapporto. Il salto rivoluzionario deriva dallo scontro tra gli interessi delle due classi portatrici delle due forze di produzione. Lo scontro tra di esse non può aversi per una differenza quantitativa perché le due classi fondano il loro potere sociale sulla stessa base economica. Lo scontro può essere solo politico, quindi non rivoluzionario. Pertanto la trasformazione sociale può essere rivoluzionaria, cioè determinata dalla comparsa di forze produttive qualitativamente nuove e della classe corrispondente, che diviene classe dominante instaurando nuovi rapporti di produzione ed un nuovo assetto sociale. Oppure si ha semplicemente uno sviluppo quantitativo delle forze produttive esistenti, promosso da una classe nuova che però mantiene gli stessi rapporti di produzione e prende il posto della classe dominante precedente senza mutare l’assetto sociale, ciò che peraltro sovente accade anche senza mutamento delle forze produttive, per semplice acquisizione di quelle esistenti, cioè mediante semplice espropriazione. Si tratta di un avvicendamento tra gruppi di potere, non fra classi, quindi di un mutamento unicamente politico, pertanto non rivoluzionario. In entrambi i casi la classe rivoluzionaria non può essere quella più sfruttata in quanto il principio di alienazione impedisce che la classe più oppressa divenga portatrice di nuove forze produttive, ma può solo espandere quelle vecchie. Quindi si hanno le seguenti derivazioni: (C3) uno sviluppo qualitativo delle forze produttive è rivoluzionario ma classista; (C4) uno sviluppo quantitativo delle forze produttive non è rivoluzionario e quando lo è fallisce; (C5) la classe rivoluzionaria non è quella più sfruttata
Tali correlazioni possono essere constatate empiricamente. Infatti, riassumendo, gli schemi di transizione che il materialismo storico contempla sono tre, due di carattere empirico e ben descritti dalla teoria ma caratterizzati da dinamiche differenti. Il terzo di carattere essenzialmente teorico e ancora alla ricerca della sua conferma pratica. I primi due riguardano periodi storici già conclusi e delimitano fasi storiche completamente superate, mentre il terzo, quello che segna il passaggio al comunismo, pur essendosi già manifestato in eventi significativi è ancora in via di svolgimento. Perciò è qui che il materialismo storico viene messo alla prova. Da una parte abbiamo fatti storici concreti, dall’altra previsioni frutto di considerazioni teoriche che attendono ancora in gran parte il loro riscontro empirico.

Rivoluzioni agrarie, o aristocratiche. L’unica vera rivoluzione agricola è quella che ha portato alla trasformazione della società gentilizia fondata sulla appropriazione diretta dei prodotti naturali, cioè sulla raccolta e la caccia, in società di classe, le società agrarie. Cioè i popoli agricoltori e sedentari acquistano una supremazia su quelli raccoglitori e allevatori nomadi, supremazia culturale ma non militare, ciò che determina sempre l’assimilazione dei nomadi da parte dei popoli agricoltori, i quali tuttavia vengono sottomessi militarmente dai primi. Ne risulta una società aristocratica dove gli assimilati sono la classe dominante, il popolo sottomesso la classe subordinata. Questa è l’unica rivoluzione agraria, quella che fonda la società di classe. Nelle società agrarie successive, caratterizzate dalla proprietà fondiaria, le rivoluzioni sociali che vi avranno luogo sono una ripetizione dell’atto fondativo, o il risultato di un accrescimento solo quantitativo delle forze produttive. Ma questo, dato lo sviluppo (qualitativo) estremamente lento della produttività del lavoro agricolo, e la predominanza della produttività naturale, avrà minore importanza dell’appropriazione delle forze produttive esistenti da parte di un popolo conquistatore. Si ha cioè la sostituzione di una classe aristocratica con un’altra di provenienza quasi sempre esogena, in generale attraverso la conquista di un territorio, rimozione propria di un’epoca in cui l’appartenenza etnica o religiosa sostituiva mascherandola quella di classe. In conseguenza della staticità delle forze produttive tali sono anche i rapporti di produzione. Di qui il carattere tendenzialmente conservatore delle classi subordinate, il fallimento dei loro tentativi rivoluzionari e quindi in generale il carattere non rivoluzionario dei mutamenti sociali. In sintesi: i mutamenti sociali sono opera di una ‘terza classe’, diversa da quella sfruttata. E’ il caso di tutte le società agrarie.

Rivoluzioni industriali, o borghesi. Si ha uno sviluppo di forze produttive qualitativamente nuove, che è promosso da una delle classi produttive, ma non da quella direttamente antagonista alla classe dominante. Tale espansione prosegue fino a quando non trova negli esistenti rapporti di produzione un ostacolo nello sviluppo del settore produttivo dove tale classe opera, trovandosi così nella necessità di abolire tale rapporto. Mentre le altre classi, in primo luogo quella dei proprietari dei mezzi di produzione del modo di produzione dominante, e per questo classe dominante, si oppone a tale sviluppo e soprattutto perché ciò implica l’abolizione dei rapporti di produzione vigenti. Lo sviluppo delle nuove forze produttive ha luogo all’interno della vecchia società, per cui la trasformazione procede sia mediante l’introduzione dei nuovi rapporti nel settore economico prima dominante, cui segue il suo assorbimento in quello nuovo, sia con la conseguente istituzione di nuovi rapporti politici e giuridici che rispecchino la posizione economica della nuova classe, cioè la transizione si realizza come abolizione dei privilegi della vecchia classe dominante. Quindi la nuova società si trova economicamente già sviluppata in quella vecchia, e il movimento storico deve soltanto liberarla dalle precedenti forme sociali ormai superate, quando non dannose, cioè dalle vigenti forme giuridiche, politiche e culturali. Tale immane scontro tra interessi di classe può terminare con una rivoluzione vittoriosa, e allora si apre un’epoca di sviluppo sociale, o si può risolvere in un compromesso, e allora lo scontro decisivo viene solo procrastinato, oppure può sfociare nella decadenza della società esistente, che sopravvive nella stagnazione o ritorna a modi di produzione precedenti, la “barbarie”. Riassumendo, qui si ha che la ‘terza classe’ agisce con strumenti essenzialmente economici, facendosi portatrice di nuove forze produttive, operando un mutamento rivoluzionario divenendo essa stessa classe dominante. E’ il caso delle rivoluzioni borghesi.

Rivoluzione del lavoro sociale, o comunista. Secondo la teoria non comporta alcun mutamento delle forze produttive, ma una semplice espropriazione, che tuttavia determina un mutamento radicale del rapporto di produzione ad opera della classe antagonista. Quindi non occorre che questa sia portatrice di un nuovo modo di produzione. Si colloca come fase conclusiva della società di classe, pertanto in connessione strettissima con la rivoluzione borghese, della quale si pone come necessaria continuazione e compimento.

Quindi, considerando le forze produttive dal punto di vista qualitativo, cioè come modi di produzione, si osservano nella storia due grandi transizioni ben definite, oltre ad una possibile terza transizione definita teoricamente ma solo parzialmente confermata. La prima transiziona è quella connessa all’invenzione dell’agricoltura, che determina la nascita della società di classe, che prende il posto della precedente società fondata su caccia e raccolta; e il passaggio dall’agricoltura all’industria come modo di produzione dominante, che determina l’avvento del capitalismo, nuovo modo di produzione che tuttavia rimane interno alla società di classe. Riguardo le classi, nelle rivoluzioni agrarie la nuova classe proprietaria è quasi sempre di origine esogena, è un popolo conquistatore (Cfr. Il mondo antico, in questo stesso sito), mentre nella transizione al capitalismo è la grande borghesia, che acquista una fisionomia propria separandosi dalla piccola borghesia. Quindi le rivoluzioni agrarie sono determinate da uno sviluppo tutt’al più quantitativo (quello qualitativo è talmente lento e superficiale da avere scarsi riflessi sociali), mentre nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo abbiamo uno sviluppo marcatamente qualitativo, che è il modo di transizione delle rivoluzioni borghesi. Peraltro la rivoluzione industriale è preceduta da un grande sviluppo della produttività dell’agricoltura e da una rivoluzione agraria qualitativa, che si confonde con essa e che è l’unica vera rivoluzione agraria, necessaria per proletarizzare i contadini e per l’accumulazione primitiva. Quindi la quantità sviluppandosi diviene qualità. Questi (scarsi) dati di fatto confermano le precedenti derivazioni, che nella teoria si aggiungono ai precedenti principi e che si possono così riassumere: (3C) le transizioni quantitative non sono rivoluzionarie, e quando lo sono falliscono; (4C) le transizioni qualitative sono rivoluzionarie ma classiste; (5C) la classe rivoluzionaria non è quella del modo di produzione principale, cioè quella che si oppone alla classe dominante come sua antagonista diretta in un rapporto di sfruttamento, ma una terza classe estranea al rapporto di produzione principale.

Queste derivazioni della teoria sollevano numerosi problemi, soprattutto sulle modalità della transizione, il ruolo delle classi e il loro rapporto con la dinamica delle forze produttive, in particolare riguardo alla terza transizione, cioè alla fine della società di classe e il passaggio al comunismo. Questa non ha precedenti storici se non parziali ed isolati, quindi le sue caratteristiche e le condizioni di realizzabilità devono essere dedotte dalla teoria. Ma si constata immediatamente che il comunismo è una ipotesi che non può essere dedotta dal materialismo. Due sono i problemi principali. Il passaggio al comunismo sembra incompatibile con il materialismo storico sotto due aspetti: (1) le modalità di transizione; (2) il terzo principio del materialismo storico, cioè con il principio di soggettività sociale.

2. INCOMPATIBILITA’ DEL MATERIALISMO STORICO CON LA TRANSIZIONE AL COMUNISMO

(a) rispetto alla modalità di transizione

La prima questione è immediata. Poiché nessuna delle due possibili transizioni porta ad un superamento della società di classe il comunismo appare impossibile. Infatti se la transizione è quantitativa essa rimane nell’ambito della società classista esistente; se qualitativa approda ad un modo di produzione diverso ma sempre classista, quindi in ogni caso rimangono interne alla forma classista della società. Inoltre, la classe rivoluzionaria non è quella che ha una posizione subordinata del rapporto di produzione principale, ma è esterna ad esso.
Non sorprende che la rivoluzione comunista sollevi difficoltà teoriche, poiché in quanto segna la fine delle società di classe si presenta come caso speciale, senza precedenti cui riferirsi. Infatti la disamina finora svolta sul materialismo conduce alla conclusione che solamente lo sviluppo qualitativo delle forze produttive porta ad un mutamento radicale del rapporto di produzione. Infatti considerando il quadro complessivo delineato dal materialismo esso allude a una alternanza di fasi di sviluppo quantitativo e qualitativo che possono susseguirsi all’infinito, ma non prevede la loro fine. Quindi il materialismo è compatibile con le dinamiche delle società di classe solo fintanto che ne considera la nascita, la riproduzione, lo sviluppo ma non quando tratta il superamento del classismo. Per superare tale difficoltà è necessario modificare più o meno profondamente la teoria stessa.

(b) Incompatibilità tra materialismo storico e le teorie sulla lotta di classe nel capitalismo.

Ma qui sorge la seconda difficoltà. Cioè le condizioni per un superamento del capitalismo non trovano riscontro nei fatti anche riguardo la possibilità per il proletariato di presentarsi quale portatore di forze produttive. Infatti il materialismo storico prevede che lo sviluppo delle forze produttive sia opera della classe egemone, che essa sia tale proprio per questo. Tale principio generale va mantenuto, poiché il materialismo storico è essenzialmente una teoria della lotta di classe in quanto conflitto economico.
A tale proposito proprio questo problema rende evidente che quando si parla di forze produttive non si sottolinea a sufficienza che queste sono quelle del lavoro sociale (le forze naturali lavorano ma sempre a titolo gratuito). Infatti, condizione necessaria perché una classe abbia una funzione progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive del lavoro è che essa stia in un rapporto quanto meno dialettico, con il lavoro stesso. Cioè una classe progressiva è tale a due condizioni: se è classe di produttori e se ha con il lavoro sociale un rapporto complessivamente positivo, per quanto le condizioni sociali in cui questo si svolge possano essere insoddisfacenti. In particolare il proletariato, proprio in quanto classe rivoluzionaria, dovrà avere un rapporto positivo con il lavoro sociale così come si presenta sotto il capitalismo, quindi con il lavoro come cooperazione e come macchinismo. Ma i dati storici riguardo svolgimento della lotta di classe nella società del capitale sembrano confutare la teoria.
La dinamica sociale relativa al lavoro sotto il capitale viene descritta da Marx tramite la categoria dell’alienazione e la teoria connessa. Questa appare già nei “Manoscritti del ‘44” (Cfr. ivi, Il lavoro salariato), e viene ulteriormente svolta negli scritti successivi e principalmente nel Capitale (Cfr. soprattutto ivi I, IV, 11-13), ripresa poi come teoria operaista italiana (Panzieri). Qui l’alienazione riguarda il rapporto tra lavoratore salariato e i mezzi di produzione sotto il capitale, denominato ideologicamente rapporto uomo-macchina, mentre si tratta in realtà del rapporto di produzione tra lavoro salariato e capitale. Tale teoria si può così riassumere. Le forze produttive non solo determinano specifici rapporti di produzione ma evolvendosi nel tempo creano una classe di produttori incompatibili con questi rapporti, che appaiono statici rispetto a tale sviluppo, generando una crisi. Ciò equivale a dire che il superamento dell’alienazione naturale comporta il contestuale aumento dell’alienazione sociale. La crisi induce il capitale a riorganizzare la produzione introducendo nuove tecnologie in modo da disciplinare i produttori, riequilibrando così i rapporti di potere all’interno del rapporto di produzione esistente ripristinando il comando sul lavoro, cioè il rapporto di produzione. Viene così operata una ristrutturazione, cioè uno sviluppo qualitativo delle forze produttive. Se l’operazione riesce il rapporto di produzione viene mantenuto nel suo carattere essenziale, altrimenti crolla. Ma anche quando riesce il mutamento qualitativo delle forze produttive ripropone con maggior forza la necessità di un mutamento del rapporto di produzione determinando una esasperazione del conflitto fino al crollo finale. La prima fase del ciclo è descritta dal materialismo storico classico, la seconda è la critica del macchinismo presente nel Capitale (Ivi, I, IV, 13) e sviluppata da Panzieri.
Quindi, secondo la teoria dell’alienazione capitalista, l’esistenza di una classe di produttori in conflitto con i rapporti di produzione promuove oggettivamente lo sviluppo di nuove forze produttive. Ma questo sviluppo è rivolto contro i produttori in quanto tende ad intensificare lo sfruttamento poiché rafforza il comando sul lavoro, aumenta la disoccupazione, dilata il tempo di lavoro e ne accresce l’intensità, cioè complessivamente tende ad aumentare il plusvalore relativo. Infatti tale sviluppo delle forze produttive è realizzato dalla borghesia, cioè dalla classe proprietaria, superando la resistenza opposta dai produttori allo sfruttamento. E solo dopo di ciò è possibile ripristinare il rapporto di produzione, in parte mutato ma, in assenza di una transizione, invariato per l’essenziale. Quindi il proletariato si oppone soggettivamente allo sviluppo delle forze produttive esistenti, per cui non può essere una classe progressiva nell’ambito delle forze produttive esistenti. Di conseguenza non può avere un ruolo rivoluzionario in una transizione qualitativa di questo tipo in quanto si tratta di forze appartenenti al capitale e combattute dal proletariato. Ciò è precisamente la definizione dell’alienazione sociale: il dominio che i prodotti sociali esercitano su coloro che li hanno creati.
Per quanto riguarda il possibile ruolo rivoluzionario del proletariato in una transizione nella quale sia esso stesso creatore di nuove forze produttive, tale eventualità pare ancor più remota. Se il proletariato non è progressivo rispetto alle forze produttive esistenti, a maggior ragione non potrà crearne delle proprie. Infatti si può constatare che non possiede palesemente forze produttive proprie, superiori a quelle del capitale stesso, da opporre ad esso. Anzi sempre più il proletariato appare spossessato delle proprie capacità di lavoro, sempre più si presenta come forza lavoro astratta priva non solo di risorse proprie ma di autonoma esistenza in quanto forza lavoro. Ciò risulta evidente nei momenti di scontro sociale dove il proletariato appare privo di un progetto di mutamento sociale che oltrepassi il capitale (Cfr. W.Woland, Teoria radicale ecc., Nautilus, 1982, IV).
La teoria del materialismo, appare quindi palesemente incompatibile con il quadro della lotta di classe sotto il capitale - nella sua forma corrente, quella dell’operaismo, - disegnato dalla teoria dell’alienazione. Tale difficoltà del materialismo storico è stata rilevata raramente, ad esempio da K. Korsch (Cfr. Il materialismo storico, Laterza, 1971, p. 28, n.) e da Pannekoek (Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 71-72), e comunque non adeguatamente sviluppata.
Quindi due sono le questioni da risolvere: incompatibilità della rivoluzione comunista con il materialismo sia per quanto riguarda le possibili modalità di transizione, sia per il carattere non rivoluzionario del proletariato. Sono questi nodi che occorre sciogliere, compito tanto più urgente di fronte all’involuzione reazionaria dell’operaismo e di tanta parte della sinistra, che ha portato a forme di ambientalismo totalitarie e dogmatiche, quando non misticheggianti nell’auspicare un ritorno alla terra, sostanzialmente a modi di produzione superati storicamente e comunque impossibili da ripristinare. Nodi che pure possono dar conto anche della deriva riformista del marxismo, conseguenza del fatto che il diritto storico ad affossare un sistema sociale è conferito dall’essere possessori della base materiale oggettiva adeguata all’esistenza di una società superiore, e ciò è possibile solo a una classe progressiva rispetto allo sviluppo delle forze produttive esistenti, e se queste sono prodotto del capitale con esso occorre conciliarsi. Verità sgradevoli queste, che entrambe tali correnti revisioniste si rinfacciano reciprocamente, cioè sostanzialmente gli ambientalisti ai riformisti di promuovere lo sviluppo, i secondi di rimando ai primi di auspicare il contrario, cioè la decrescita.
Occorre quindi rispondere a queste obbiezioni, che sono la critica che il materialismo rivolge a se stesso, e la risposta può essere trovata solo nella storia reale, in quella dei modi di produzione, innanzitutto in quella attuale. Infatti l’evoluzione del capitalismo posteriormente a Marx ha fatto emergere alcuni fatti nuovi, che mutano in parte la prospettiva, fatti che possono suggerire delle soluzioni. Una risposta decisiva, o almeno la possibilità di essa, può emergere da un chiarimento del rapporto fra materialismo storico e teoria dell’alienazione.

3. L’ALIENAZIONE

Lo schema marxiano

La teoria della rivoluzione comunista, come deduzione dal materialismo storico è ancora sostanzialmente quella proposta da Marx. Egli descrive la transizione al comunismo come evento particolare, attribuendogli il carattere specifico di evento che conclude l’era della società di classe.
Così può delineare la rivoluzione comunista conferendogli caratteri speciali, essendo la rivoluzione comunista un evento di per sé unico, diverso da tutti i movimenti rivoluzionari precedenti. Infatti nel quadro marxiano della società capitalistica matura sono presenti solo due grandi classi che hanno assorbito tutte le altre. Una, la borghesia, numericamente esigua ma proprietaria assoluta della società; l’altra, il proletariato, costituita dalla quasi totalità degli individui, spossessata di tutto, come è necessario perché sia possibile la fine di ogni rapporto di proprietà e l’avvento della società senza classi. Esse sono solo due in quanto il capitalismo è la società di classe all’apice del suo sviluppo. Dopo può solo verificarsi la sua decadenza. Quindi dopo il capitalismo non possono esserci altre società di classe.
Se il capitalismo è l’ultima società di classe allora si può escludere che le forze produttive possano svilupparsi ulteriormente sul piano qualitativo, poiché altrimenti si avrebbe una nuova società di classe. Quindi non è necessario che vi sia un modo di produzione al di là dell’industrialismo, per cui la teoria del superamento di Marx può porsi nell’ambito di un mutamento quantitativo delle forze produttive, quindi come eccezione, in quanto qui la classe subordinata, il proletariato, diversamente dalle rivoluzioni agrarie, è rivoluzionaria, anzi più rivoluzionaria di ogni altra perché pone fine al ciclo delle società di classe, secondo il classico schema tripartito dei grandi cicli storici: società primitiva (naturale), società di classe (pseudo-naturale), con cui si conclude la preistoria dell’umanità (storia incosciente), ed infine il comunismo (inizio della storia cosciente).
Quindi Marx descrive la transizione al comunismo come evento speciale. Ma essendo già la rivoluzione borghese un caso senza precedenti storici, si può affermare alternativamente che Marx considera per certi aspetti la rivoluzione proletaria come la continuazione della rivoluzione borghese lasciata incompiuta dalla borghesia, compimento che nelle mani del proletariato diviene qualcos’altro, cioè la società senza classi. Pertanto Marx considerando la rivoluzione proletaria e l’avvento del comunismo essenzialmente come compimento della rivoluzione borghese, può porli come il suo proseguimento da parte del proletariato dopo aver eliminato la specifica contraddizione che ne ostacola lo sviluppo, cioè l’uso di un processo di produzione eminentemente sociale per un fine privato. In buona sostanza la borghesia crea due nuove forze produttive: la divisione industriale del lavoro, cioè il lavoro sociale e il suo complemento, il mercato, estesi su scala mondiale; ma non può svilupparle, per cui il proletariato ne assume l’eredità e libera tali forze produttive borghesi dai ceppi che le ostacolano e ne fa la base della propria emancipazione ed insieme di quella di tutto il genere umano, ponendosi come classe universale.
Ma lo schema marxiano ha due aspetti discutibili. Da una parte rinuncia a conferire al proletariato il ruolo di portatore di nuove forze produttive, senza tener conto del fatto che è proprio questa caratteristica a rendere una classe rivoluzionaria. Infatti per accedere al comunismo il rapporto di produzione deve mutare e per questo devono mutare le forze produttive, secondo il principio di azione sociale. Quindi è necessario che il proletariato sia portatore di nuove forze produttive in modo da trasformare il rapporto di produzione in una prospettiva comunista. E ciò non implica l’impossibilità di uscire dalla società classista, in quanto se si postula che il capitalismo è l’ultima società di classe le nuove forze produttive possono ugualmente portare al superamento della società di classe e al comunismo. Cioè la natura rivoluzionaria delle lotte proletarie è garantita dalla natura particolare del capitalismo, dal fatto che è l’ultima società di classe. Marx invece contradditoriamente pone il proletariato come classe rivoluzionaria ma non progressiva, prendendo così a modello le rivoluzioni agrarie invece delle rivoluzioni borghesi. Inoltre pone il carattere di ultima società di classe del capitalismo come assioma astratto non sostenuto da fatti concreti, come atto di fede. Ciò non invalida il discorso ma lo rende più debole.

Alienazione e capitalismo

Marx suppone implicitamente che il superamento del capitalismo coincida con la fine della società di classe. Infatti i caratteri teorici della transizione al comunismo proposti da Marx sono tutti deducibili da tale presupposto: due classi, quindi assenza di una terza classe rivoluzionaria; classe subordinata non progressiva; espropriazione delle forze produttive esistenti seguita dal loro sviluppo. In realtà il discorso è più complicato. Da una parte la fine della società classista non può essere un postulato astratto e indipendente dagli altri, ma deve essere fondato su un presupposto materiale, essendo tale teoria un discorso che deduce fatti sociali da premesse materiali, cioè da fatti economici. Dobbiamo quindi chiederci che cosa mina alla sua base la società di classe e quindi il capitalismo e che la porta ad estinguersi. Ciò che distingue il capitalismo dalle precedenti società agrarie non è tanto lo sfruttamento del lavoro, sempre esistito nella società di classe ma le forze produttive messe in azione e soprattutto il risultato: un enorme aumento della produttività del lavoro, ciò che ha determinato in breve tempo una virtuale abolizione della dipendenza della società dal mondo naturale, cioè l’abolizione dell’alienazione naturale. Ma l’alienazione è la causa profonda della divisione in classi: questo è l’anello di congiunzione fra materialismo storico e teoria dell’alienazione, per il quale si può affermare che la borghesia, abolendo l’alienazione, pone le premesse per l’abolizione delle classi.
Tuttavia, se l’alienazione scomparisse con il superamento della condizione di dipendenza dal mondo naturale, dopo la rivoluzione borghese e il conseguente sviluppo qualitativo delle forze produttive, la società di classe e con essa lo stato si estinguerebbero, cioè la rivoluzione borghese porterebbe direttamente al comunismo. Ma così non è a causa dell’inerzia sociale, per cui i rapporti sociali borghesi, e con essi i rapporti di classe in generale, sopravvivono alla scomparsa della loro base materiale, cioè dell’alienazione naturale. La società assume allora una forma pseudonaturale, i rapporti di produzione e quelli sociali in generale divengono sempre più rapporti competitivi fra gruppi particolaristici, cioè scontri fra bande rivali (lobby, mafie, clientele, cordate, ecc.), forma tipica dello stato di natura, di bellum omnium contra omnes. Sopravvive quindi una struttura classista artificiale, che si mantiene oltre la sua necessità, assumendo contorni esasperati. Dal punto di vista ideologico si produce un genere particolare di falsa coscienza, il feticismo delle categorie dell’economia, che vengono assolutizzate quindi trasformate ideologicamente in fattori condizionanti la vita economia e sociale.
Diviene così necessaria un’ultima rivoluzione che è in sostanza una continuazione e completamento di quella borghese. In linea di principio tale rivoluzione non sarebbe strettamente necessaria per pervenire alla fine della società di classe, in quanto questo evento è già completamente determinato dalla fine dell’alienazione naturale e la sua realizzazione è solo questione di tempo. Ma, come sempre, il materialismo non è in grado di stabilire scadenze temporali per la storia e la transizione potrebbe protrarsi per un tempo infinito. Inoltre nulla garantisce che in questo limbo storico, non possa apparire una “terza classe” abbastanza forte da compiere una rivoluzione classista (ad esempio una rivoluzione dei tecnici), rinviando la fine della società di classe. Quindi il discorso teorico va interpretato come un incitamento ad affrettare i tempi di un evento già scritto nella storia, avendo la certezza di essere dalla parte della necessità storica.
Pertanto è essenziale che la teoria includa il principio seguente, vero fondamento del materialismo storico:
principio di alienazione: (4P) L’alienazione è all’origine delle classi sociali.
Da cui consegue che il capitalismo pone fine alla società di classe in quanto abolendo l’alienazione naturale ha eliminato la causa primaria della separazione in classi della società. Ma questo processo è accompagnato dallo sviluppo di un altra forma di alienazione, quella che sorge dalla divisione del lavoro, che è precisamente lo strumento che ha permesso alla società di uscire dall’alienazione naturale. Quindi la causa del superamento dell’alienazione è anche ciò che la riproduce in un’altra forma e prolunga l’esistenza della società di classe oltre la sua necessaria esistenza storica. Questo spiega la complessità del processo di uscita dal capitalismo e conferma la legge di inerzia sociale.
Quindi, poiché si tratta di rendere esplicita l’assunzione marxiana della coincidenza della fine della società di classe con quella del capitalismo e di fornirgli una base materiale, a ciò può provvedere la teoria dell’alienazione. D’altra parte non c’è da stupirsi che i dati storici, cioè quelli relativi alle rivoluzioni agrarie e borghesi non forniscano indicazioni sulle rivoluzioni proletarie. Infatti le prime si svolgono interamente nell’ambito della società di classe, mentre le seconde la riproducono a livello più alto. D’altra parte, quando un teorema è indimostrabile in base ai postulati l’unico modo per salvare la teoria è considerare il teorema come un nuovo postulato. Ciò significa considerare la teoria dell’alienazione parte integrante del materialismo storico.

Con l’inclusione della teoria dell’alienazione nel materialismo storico è possibile dedurre i caratteri della transizione al comunismo da quelli delle rivoluzioni precedenti. Così è risolto il primo problema. Rimane il secondo.
Ammesso il postulato sugli effetti sociali dell’alienazione naturale, allora, essendo necessariamente due le classi ed essendo già oggettivamente decaduta la società di classe, sarà compito del proletariato, in quanto classe oppressa, porre termine insieme al capitalismo alla società di classe agonizzante, tale ormai solo sovrastrutturalmente. Ma per assumere tale ruolo deve farsi portatore di una nuova forza produttiva, poiché questa è la condizione che rende una classe rivoluzionaria. Infatti, poiché l’obbiettivo ultimo di una classe rivoluzionaria è la trasformazione dei rapporti di produzione, per realizzare tale finalità deve creare nuove forze produttive. Quindi deve porsi come classe progressiva, volente o nolente. Del resto ciò è dimostrato dalle rivoluzioni borghesi, le uniche che abbiano determinato l’eliminazione di una classe dominante, e di converso dalle rivoluzioni agrarie, dove il semplice tentativo di espropriazione delle terre non ha mai portato alla fine dell’aristocrazia. Che poi la rivoluzione proletaria non possa sfociare in un’altra società di classe, nonostante segua il modello delle rivoluzioni borghesi, ciò è garantito dal fatto che non esiste più la sua base materiale, cioè l’alienazione naturale.
L’alienazione sociale che la sostituisce è infatti una condizione tipica della società borghese. Essa si manifesta come feticismo sociale, cioè come rapporti sociali dove la dipendenza funzionale tra gli individui in quanto produttori diviene rapporto di dominio mascherato da necessità oggettiva, cioè pensata ideologicamente come legge naturale, come proprietà naturale delle cose. Nella sua forma più generale ed astratta l’alienazione sociale si presenta come feticismo delle categorie dell’economia politica, espresso in forma di sistema dottrinario dagli economisti borghesi, ma esistente in ogni individuo in quanto pensiero dominante della classe dominante. Non che l’alienazione fosse assente nelle società agrarie, ma era soverchiata dall’alienazione naturale ancora pervasiva e si confondeva con essa. La sua forma tipica era la religione, ma anche il valore militare, la famiglia, l’onore e in generale tutti i valori delle società tradizionali.
Qui non è possibile sviluppare il discorso sull’alienazione e in particolare sul feticismo. Rileviamo solo che la compatibilità con il materialismo storico è problematica, ciò che rende difficoltosa l’unificazione delle due teorie. Per sua natura la teoria dell’alienazione tende ad avere una forma idealistica, sebbene tale forma descriva molto puntualmente contenuti materialisti. Infatti si presta molto bene ad un uso quasi obbligato della dialettica, ciò che possiamo concederci per ora anche noi in questo saggio, nonostante l’impostazione generale per quanto riguarda il materialismo sia quella del metodo scientifico. Si tratta di una contaminazione che va giustificata, ciò che faremo in altra occasione. Rileviamo soltanto che il materialismo storico, comprendendo solo marginalmente il concetto di misura (solo in quanto è in rapporto con l’economia politica), è una teoria fortemente qualitativa e lo è ancor di più con l’inclusione in essa del concetto di alienazione, interamente qualitativo, quindi non si presta all’applicazione del metodo scientifico. Ciò rende necessario l’uso di un linguaggio allusivo e sintetico, quale è quello della dialettica.

4. ATTUALITA’ DELL’OPERAISMO

Caratteri generali dell’operaismo

Si tratta quindi di affrontare la seconda questione, quella del carattere non progressivo del proletariato che sembra impedirgli di essere all’altezza del suo ruolo storico, quello di esecutore della sentenza emessa dalla storia che condanna la società di classe all’estinzione. A tale scopo occorre ricorrere non tanto all’ortodossia marxista quanto alle correnti marginali del marxismo, le sole che hanno tentato di sviluppare la teoria in forme compatibili con l’evoluzione del capitalismo moderno. Quella che più si è spinta avanti su questa strada, pur mantenendosi fedele per l’essenziale al marxismo, è l’operaismo.
L’operaismo, considerando marxianamente il capitale come uno specifico rapporto sociale, lo attacca alla radice ponendosi come critica del capitale a partire dal rapporto di produzione concreto e immediato nel luogo di lavoro. Secondo tale prospettiva esso individua nel capitalismo due elementi fondamentali: la tecnica come scienza applicata e la divisione del lavoro in quanto organizzazione del lavoro. Ciò lo conduce ad una critica del macchinismo e della separazione tra lavoro direttivo ed esecutivo. Ma questi due aspetti del rapporto di produzione sono strettamente legati: la direzione è la funzione che considera il processo produttivo astrattamente sotto l’aspetto teorico complessivo, la macchina ne è la realizzazione pratica particolare. Dove per macchina si intende il processo produttivo concretamente in atto, per la quale è indifferente che sia animata, come l’operaio collettivo della manifattura, oppure inanimata, come il sistema di macchine dell’industria meccanizzata. Per cui la direzione è la tecnica in generale, intesa indifferentemente come scienza naturale o scienza sociale applicate, quindi organizzazione e direzione di forze sia naturali che sociali. Mentre la funzione esecutiva è sempre la realizzazione di quella direttiva, la sua oggettivazione.
Sotto il capitale entrambi gli aspetti del rapporto di produzione hanno quale la finalità primaria del processo produttivo: la subordinazione della forza lavoro al capitale in quanto condizione imprescindibile del suo fine ultimo, il profitto. Per questo divisione del lavoro e macchinismo, le più grandi forze produttive (insieme al mercato mondiale) sviluppate dal capitale, hanno una duplice natura che rispecchia la duplice natura del processo di produzione sotto il capitale: processo di lavoro e processo di valorizzazione. Ciò che comporta una eterogenesi dei fini che sono inscindibilmente sia la produttività che il profitto, in cui però il primo è necessariamente mezzo per il secondo e quest’ultimo motore del primo. Ma qui si verifica un fatto caratteristico. Nella percezione del capitalista l’unico fine è il secondo, mentre il primo è una ineludibile necessità, cui il capitalista deve sottostare suo malgrado. Considerato al livello delle classi tale fine è l’interesse generale, ma si realizza “dietro le spalle” del capitale complessivo, come azione provvidenziale della “mano invisibile”. Perciò la razionalità, cioè l’interesse generale come fine, presiede al primo obbiettivo ma è viziata dall’interesse privato che sostanzia il secondo. Questo si presenta come limite insuperabile del capitalismo, già indicato da Marx: contraddizione tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione. Si pone allora il problema: è il superamento di questo limite compatibile con il materialismo storico? In altri termini, rappresentando questo limite un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, il proletariato è la classe che può risolvere tale situazione di stallo, ponendo l’economia su nuove basi?

La risposta dell’operaismo

L’operaismo di norma non si occupa di questioni di teoria generale. Per esso ciò che importa è valorizzare il conflitto e vederne gli sbocchi pratici, sia quelli immediati, cioè i rapporti di produzione e di potere in fabbrica, che in prospettiva, cioè la possibilità di passare all’autogestione della produzione da parte dei produttori. Tuttavia tale corrente di pensiero può indicare una possibile soluzione del problema. Infatti esistono almeno tre versioni dell’operaismo, delle quali una in particolare appare compatibile con il materialismo.
La prima forma di operaismo è quella della corrente italiana (Panzieri), continuazione diretta della teoria dell’alienazione marxiana, già esposta più sopra (Cfr. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine, in Spontaneità e organizzazione, BFS, 1994). Però se la posizione di Marx riguardo la tecnica è ambivalente, cioè è vista come strumento sia di dominio del capitale che di liberazione del proletariato, nell’operaismo italiano la tecnica è considerata unicamente un apparato di dominio materiale. La condizione della transizione non è più lo sviluppo delle forze produttive e l’ostacolo che esse incontrano nel rapporto di produzione capitalistico, ma nella “intollerabilità” dei rapporti politici che ne risultano, la “schiavitù politica”, cioè nelle conseguenze sovrastrutturali (Ivi, pp.28, 36). La transizione è un atto essenzialmente politico, cui segue l’istituzione di una “nuova razionalità” non produttivistica, cioè un uso socialista delle macchine in luogo di quello capitalista (Ivi, pp.31, 32, 34, 36, 39, e Plusvalore e organizzazione pp.59, 65-68). Qui la critica al rapporto di produzione si concentra sulla tecnica, cioè sul macchinismo, che espropria l’operaio della sua capacità di lavoro trasferendola alle macchine e lo trasforma in semplice accessorio di esse. Ne deriva una fascinazione inconfessata verso un luddismo non criticato, di negazione unitalerale del capitale in quanto tale e del lavoro stesso, con il rischio di una deriva reazionaria, come in effetti si è poi verificato negli esiti postumi.
La seconda forma è l’operaismo francese (Cardan). Qui la critica verte sulla divisione del lavoro e vede il fulcro della lotta di classe nella contrapposizione tra lavoro esecutivo e lavoro direttivo e nell’intrinseca contraddizione del loro rapporto (Cfr. Capitalismo moderno e rivoluzione, 2, pp.160-161, in Socialisme ou Barbarie, Guanda, 1969). Il ruolo delle macchine come materializzazione del potere del capitale viene sottolineato (Ivi, pp.69-73), ma non è visto solo negativamente. Infatti, il lavoro esecutivo è posto come elemento contraddittorio in quanto, se l’esigenza del capitale è quella di avere una forza lavoro totalmente passiva, nello stesso tempo la complessità del sistema di macchine è tale che, se il lavoro realmente così fosse, il sistema collasserebbe. Ciò significa che il sistema delle macchine ha bisogno dell’insieme coordinato dei produttori per funzionare, apporto che i produttori erogano gratuitamente (a parte qualche raro premio di produzione collettivo) agendo non come puri esecutor, cioè come macchine, ma cooperando attivamente tra loro facendo sì che il flusso produttivo scorra in modo ottimale. Ma il fatto significativo è che tale prestazione collettiva viene erogata spontaneamente rivelando che la comunità di lavoro possiede sempre, malgrado l’espropriazione realizzata dal capitale, una capacità di lavoro collettiva non alienabile, in cui tale comunità si realizza. Ne consegue una visione positiva del lavoro, sebbene perennemente sospesa tra cogestione dello sfruttamento e sabotaggio. Quanto alla transizione al comunismo abbiamo qui nuovamente una visione prevalentemente soggettivista. La contraddizione viene spostata dall’opposizione tra forze produttive e rapporto di produzione, a quest’ultimo in quanto tale. Sebbene il suo aspetto contradditorio venga posto in relazione allo sviluppo delle forze produttive (Ivi p.162), la contraddizione è interna al rapporto di produzione, quindi si tratta di una contraddizione immediatamente politica. Tale impostazione è resa necessaria in quanto viene dimostrato che il semplice rapporto di sfruttamento non è più all’origine dello scontro di classe (Ivi, pp. 134-139). Quindi il passaggio al comunismo è posto come una questione immediatamente politica (Ivi, pp,56-58, 196-198, 213), cui seguirebbe una completa ristrutturazione della tecnologia secondo una prospettiva socialista e una conseguente trasformazione del lavoro (Ivi, pp.67-68). In sintesi il motore della storia è la lotta di classe, che ha la sua origine nell’alienazione, non nelle contraddizioni “oggettive” (Ivi, pp.126-129, 141-142, 147, 157).
La terza forma è l’operaismo consigliare tedesco-olandese (Pannekoek, Gorter, Ruhle, Mattick). Ma esso mette in secondo piano il discorso sulle forze produttive, e quando lo affronta rimane nell’ambito di una rigorosa ortodossia marxiana, cioè del materialismo come determinismo storico nella forma della teoria del crollo, ponendo la coscienza come prodotto storico, cioè materiale (Pannekoek, Organizzazione rivoluzionaria e consigli operai, Feltrinelli, 1970, pp. 12-14, 14-15, 19-20, 34, 71-72, 91, 115-117, 119-123. Mattick, L’inevitabilità del comunismo, in Critica dei neomarxisti, Dedalo,1979, pp.19, 20, 21, 24, 31, 64, 69). Essendo nato in un periodo rivoluzionario, quello che ha visto sorgere i soviet in Russia, i suoi contenuti sono essenzialmente pratici e riguardano le forme di attuazione dell’autogestione nelle unità produttive, investendo soprattutto la questione del potere, pertanto della democrazia reale. Cioè viene considerato fondamentale il lato politico della teoria rivoluzionaria, quindi l’aspetto sovrastrutturale. Tuttavia riguardo i temi centrali della teoria, nella misura in cui vengono sviluppati, si nota una concordanza maggiore con la corrente francese. Infatti rispetto la tema centrale del lavoro la valutazione è essenzialmente positiva, sia per la divisione del lavoro (Pannekoek, cit., pp. 5, 6-7) che per il carattere del lavoro in quanto realizzazione dell’individuo. Infatti l’essenza alienata del lavoro salariato non intacca il carattere umano del lavoro, che sarà prontamente ripristinato, come carattere però del lavoro sociale, con l’instaurazione del comunismo (Ivi, pp. 7-12). E’ inoltre assente la demonizzazione della scienza e della tecnica, anche se non sfugge il loro aspetto di strumento di dominio della tecnica nel capitalismo (Ivi, pp. 7, 23, 61-63), e viene sottolineato il loro contenuto progressivo rispetto al comunismo, soprattutto le scienze sociali (Ivi, pp. 65-66), mentre però sono ignorati i rischi che si corrono lasciandone la gestione agli specialisti (Ivi, p. 25).

Compatibilità dell’operaismo

L’operaismo italiano, in quanto discendente in linea diretta dalla teoria dell’alienazione, che peraltro estremizza in un senso antitecnologico, è incompatibile con il materialismo storico poiché in conseguenza di tale radicalismo pone il proletariato in un ruolo antistorico, cioè considera unilateralmente solo le conseguenze negative dell’alienazione Infatti il rapporto del proletariato con la tecnica è posto come netto rifiuto il cui superamento è rinviato al comunismo realizzato e condizionato alla nascita di una nuova tecnica. Ma l’incompatibilità sta specialmente nell’opposizione al lavoro in quanto tale, da cui deriveranno le teorie oggi molto diffuse del rifiuto del lavoro, della estinzione del lavoro ecc., di cui l’operaismo italiano non è responsabile ma ne costituisce certamente l’origine.
Invece l’operaismo francese è coerente con il materialismo storico, come anche l’operaismo consiliare, nella misura in cui entra nel merito della questione del lavoro. Qui l’operaio, nonostante l’alienazione, mantiene un rapporto se non gratificante almeno dialettico con il lavoro, del quale può constatare la duplice natura, cioè qualcosa che da una parte appartiene al capitale ed è usato per scopi a lui estranei ma dall’altra si presenta come concreta possibilità della propria realizzazione. Se questo è il rapporto del produttore con il lavoro, quello con le macchine, poiché lavora inserito in un sistema di macchine, sarà un rapporto contradditorio ma non di rifiuto radicale. Questo atteggiamento verso il lavoro e la tecnica corrisponde al nascere di una forma di coscienza per la quale “il lavoro diviene la prima necessità per l’individuo” (Marx). Ciò rimane vero anche se il proletariato tende al tempo stesso a sottrarre al capitale quelle che sono le proprie risorse potenziali. In realtà sottrae al capitale non tanto le proprie capacità individuali, non solo quelle ma soprattutto il lavoro sociale, cioè la cooperazione (che peraltro non gli viene pagata). Ma siccome può realizzarsi solo come individuo sociale, cioè in primo luogo come produttore collettivo, questa viene in parte erogata, e ciò anche perché altrimenti la produzione verrebbe paralizzata. Tale cooperazione viene sì realizzata ma in misura molto al di sotto delle potenzialità, per cui il proletariato si trova in possesso di una fondamentale forza produttiva ma nell’impossibilità di usarla a causa del rapporto di produzione alienato, quindi è in perenne contraddizione con se stesso. Ma nonostante ciò l’operaio può considerare lo sviluppo delle forze produttive, in particolare della cooperazione, identico alla propria realizzazione individuale, sebbene in forma alienata, e può vedere la soluzione di tale contraddizione solo nel superamento del capitalismo e nella riunificazione delle funzioni direttiva ed esecutiva.
Quindi l’operaismo francese permette di considerare il proletariato come classe progressiva. E’ questa la soluzione operaista del secondo problema. La questione può quindi apparire risolta ammettendo la persistenza di un valore del lavoro anche nel proletariato moderno nonostante l’estrema decadenza del lavoro come lavoro esecutivo parcellizzato, in quanto il capitale stesso sviluppando le forze produttive deve promuovere la sua riqualificazione. Ma vi è qui il pericolo di una deriva passatista, connessa al fatto di attribuire illusoriamente al lavoro frammentato e dequalificato nella fabbrica moderna, le caratteristiche dell’epoca precapitalistica, quando l’artigiano era padrone del suo mestiere e presiedeva allo svolgimento di tutto il percorso seguito dal prodotto, dalla materia grezza al prodotto finito e anche alla vendita. Cioè occorre non cedere alla tentazione di rivalutare la divisione del lavoro artigianale.
Ma soprattutto rimane la questione fondamentale. L’operaismo francese appare bensì compatibile con il materialismo storico in rapporto alla transizione al comunismo, cioè pone il proletariato come classe progressiva, ma ciò viene raggiunto al prezzo di liquidare la teoria dell’alienazione. Ciò non è possibile, in quanto è la base della soluzione del primo problema. Ma non solo, è la condizione della lotta di classe e più in generale della dinamica della società di classe, determinando il suo sviluppo e la sua estinzione. Per cui occorre formulare diversamente la dinamica dell’alienazione, cioè mantenerne il carattere conflittuale ma considerarla in un rapporto dialettico col suo carattere di necessità storica.

5. L’OPERAISMO SUPERATO

La prospettiva moderna

Considerare l’alienazione solo come ciò che produce la negazione del capitale da parte del proletariato e quindi della tecnologia, restringe la possibilità di una transizione al comunismo all’ambito di una espropriazione dei mezzi di produzione seguito sviluppo generale delle forze produttive esistenti, cioè alla soluzione marxiana. Ma posto in questi termini ciò si riduce ad affermare che quanto garantisce la radicalità delle rivoluzioni proletarie, nonostante il loro carattere non progressivo dal punto di vista materiale, è che esse sono necessariamente le ultime. Ma ciò è tautologico in quanto si pone il proletariato come rivoluzionario perché il culmine della sua parabola storica coincide con la fine della società di classe. Che è come dire una stessa cosa con parole diverse. L’altra possibilità è uno sviluppo qualitativo, considerato possibile come superamento dell’industrialismo, cioè una rivoluzione di tipo borghese, che però sarebbe classista. Quindi nell’ambito del materialismo il problema appare irrisolvibile se non apponendo ad esso come postulato il superamento della società di classe. A tal fine una via d’uscita alle precedenti difficoltà sembrerebbe quella del primo problema, cioè la teoria dell’alienazione stessa. Infatti se da una parte essa conferisce al proletariato un ruolo storico puramente negativo, dall’altra essa è fondata sul presupposto che il capitalismo supera l’alienazione naturale e con questa la base materiale su cui è stata costruita la società di classe. Ma al contempo l’alienazione naturale viene sostituita non dal comunismo ma da quella sociale, in quanto essa non produce la condizione di esistenza del comunismo, cioè un rapporto di produzione autogestionario, ma solo la crisi irreversibile della società di classe. Questo è compito del proletariato.
Ma qui sorge un’altra questione. Si constata che ciò che assicura la fine del classismo impedisce l’avvento del comunismo. Infatti, se è vera la teoria dell’alienazione il proletariato non può essere progressivo, quindi secondo il materialismo non può essere rivoluzionario. Cioè in condizioni di alienazione non può creare proprie forze produttive. Ma la teoria dell’alienazione prevede ugualmente la fine del classismo. Se la teoria dell’alienazione è falsa, come si è già visto, il proletariato può essere rivoluzionario, ma la rivoluzione non determina necessariamente la fuoruscita dalla società di classe. La prima alternativa è la soluzione marxiana, cioè espropriazione e dittatura del proletariato, ma resta sempre il problema che per mutare i rapporti di produzione occorre introdurre nuove forze produttive. La seconda è la soluzione autogestionaria, cioè espropriazione seguita da autogestione. E’ la soluzione più coerentemente sociale. Infatti nella prima i produttori non hanno realmente il controllo delle forze produttive, perché queste sono del capitale, quindi possono essere gestite solo mediante la dittatura del proletariato sui capitalisti asserviti, ciò che rende necessaria una organizzazione repressiva, cioè partito, sindacato, polizia, gerarchia di fabbrica, dato che si tratta di forze produttive create dal capitale per il capitale, non per i produttori. Al contrario, nel secondo caso si tratta di forze produttive create dal proletariato per il proletariato, che può quindi gestirle direttamente in quanto forze proprie, con una organizzazione cui partecipano tutti i produttori mediante democrazia diretta.
Nonostante ciò la seconda soluzione non può essere accettata, almeno in questa forma, non solo in quanto rende la teoria dell’alienazione incompatibile con il materialismo ma perché vi è una ambiguità di fondo, cioè l’alienazione significa sfruttamento, che è il motore primo della lotta di classe, quindi il rifiuto di tale teoria apre la strada alla conciliazione delle classi. Così anche la prima soluzione non può essere totalmente abbandonata, poiché essa accettando la teoria dell’alienazione lascia aperta la strada ad un processo rivoluzionario, sebbene al tempo stesso impedisca l’instaurazione di un nuovo rapporto di produzione perché impedisce al proletariato la creazione di una nuova forza produttiva. Infatti secondo il principio di azione per instaurare un rapporto di produzione occorre creare una forza di produzione adeguata, ma questa strada è sbarrata proprio dall’alienazione che rende il proletariato una classe non progressiva. Quindi la teoria dell’alienazione assicura non la rivoluzione comunista ma solo la fine della società di classe. Ciò significa che in tali circostanze si perviene all’abolizione delle classi ma non all’istituzione di un rapporto di produzione interamente socializzato.
In sostanza la fine dell’alienazione garantisce la fine del capitalismo e con esso della società di classe, ma non assicura l’avvento del comunismo, cioè di un rapporto di produzione autogestionario. Infatti sono possibili altri esiti, come la storia recente ha insegnato: il capitalismo di stato, la tecnocrazia o qualcos’altro di imprevedibile. Il socialismo va costruito innanzitutto instaurando forze produttive adeguate, tali da permettere e finanche imporre un rapporto autogestionario. Quindi in ogni caso occorre vedere se l’ambivalenza della teoria dell’alienazione lascia aperta questa possibilità.
La teoria dell’alienazione descrive essenzialmente il rapporto ambiguo tra società e natura, che nel capitalismo sono rappresentate dalla borghesia e proletariato da una parte e dalle macchine dall’altra. Infatti, la lotta di classe sotto il capitale si svolge in un primo tempo proprio contro le forze produttive sviluppate dal capitale e che il capitale pone come proprie forze. Cioè si ha una fase luddista. Tuttavia a questo, che è il momento della negazione del capitale e della tecnologia da parte del proletariato, segue una fase in cui il capitale si trova obbligato a reagire a tale resistenza con lo sviluppo di una tecnologia superiore, cioè con lo sviluppo delle forze produttive stesse come strumento di comando sulla forza lavoro. Ma ciò significa lo sviluppo di una forza lavoro adeguata al livello sempre più progredito raggiunto dalle forze produttive stesse. Ciò comporta un progressivo mutamento del rapporto dei produttori con le macchine, quindi con il capitale. Inizialmente esse sono forze del capitale, quindi strumenti di coercizione nei confronti del proletariato. Con la fine dell’alienazione naturale e il passaggio a quella sociale la borghesia perde il suo dominio sulle macchine, almeno quello pratico, in quanto perde la sua funzione storica, divenendo classe parassitaria, e questo dominio passa al proletariato. In modo simile il capitale ha una funzione progressiva in quanto riunisce grandi masse di lavoratori organizzandoli in un processo di produzione collettivo, costringendoli ad abbandonare l’individualismo piccolo borghese, sia assorbendo le loro piccole attività economiche indipendenti ma asfittiche, sia abituandoli a lavorare insieme (Il Capitale, I, VII, 24, 7). Inizialmente ciò è il risultato di una imposizione che da origine al luddismo e in generale al sabotaggio, poi diviene la premessa necessaria all’autogestione. E’ questo un processo in cui viene mantenuto il rapporto conflittuale, ma gli attori si evolvono insieme alla struttura materiale. Perciò alla negazione segue la negazione della negazione, cioè uno sviluppo quantitativo delle forze produttive che diviene qualitativo e un parallelo sviluppo qualitativo del proletariato che ne fa una classe nuova, qualitativamente diverso dal proletariato di fabbrica originario. Come del resto è necessario perché l’approdo a una società comunista significa anche l’abbandono di ogni illusione ideologica e il sorgere dell’autocoscienza. E questo è certamente quanto si può osservare nel capitale moderno, dove sono evidenti i segni di un mutamento qualitativo in atto e di una realtà di classe corrispondente.

Quindi il punto fondamentale è se la storia recente ha visto effettivamente sorgere una nuova forza produttiva. L’idea più ovvia in proposito è quella dello sviluppo dell’informatica e delle sue conseguenze nella nascita di un nuovo modo di produrre. Ma se si vuole individuare qualcosa di veramente rivoluzionario occorre ampliare lo sguardo e considerare l’informatica come l’aspetto più notevole del recente sviluppo di una nuova organizzazione della produzione, sebbene non realmente tale ma sviluppo quantitativo di una tendenza precedente che diviene mutamento qualitativo, sviluppo che sta diventando il paradigma dei processi produttivi più avanzati. Tale transizione dal quantitativo al qualitativo non è nuova nella storia in quanto corrisponde alla trasformazione della borghesia degli ordini a quella di classe. Questa tendenza considera la produzione non come risultato della manipolazione diretta di materia e strumenti da parte del produttore, ma come un modo di produrre dove la “interposizione dell’utensile tra sé e l’oggetto di lavoro” viene sviluppata all’estremo, considerando produzione reale sempre più quella delle macchine automatiche e programmabili, e la produzione di queste come risultato della produzione dei produttori stessi. Tutto ciò è il risultato di due nuove forze produttive, la scienza applicata come servizi alla produzione e i servizi sociali intesi come produzione di forza lavoro qualificata. Quindi la nuova forza produttiva va individuata nei servizi in quanto lavoro indiretto, cioè lavoro cognitivo e relazionale dispiegato, quindi lavoro sociale giunto al suo massimo sviluppo.
La classe latrice di questa forza produttiva è quella dei tecnici, che in effetti si distingue da quella classica dei produttori diretti, la vecchia classe operaia. per il fatto che non è stata spossessata del controllo sul processo di lavoro. Infatti quello precedente, fondato sul lavoro diretto è stato sostituito sempre più da processi automatici, che costituiscono il processo lavorativo moderno, fondato sul lavoro indiretto dei tecnici, non sostituibile con macchine. Inoltre, per quanto concerne la collocazione territoriale, si assiste ad un processo analogo a quanto è accaduto alla borghesia che prima aveva raggiunto una sua autonomia sviluppando un proprio ambiente separato da quello della campagna, l’area urbana come proprio territorio, separandosi poi anche dagli artigiani tradizionali, la piccola borghesia feudale chiusa nelle corporazioni e nei suoi limitati privilegi. Così anche per la classe dei servizi è apparso necessario separarsi dal mondo della produzione corrente, cioè dall’industria tradizionale, quella del lavoro diretto, e trovare l’ambiente adeguato al suo sviluppo. Essa lo trova nel territorio, nelle sterminate periferie degli antichi centri urbani che, saldandosi quasi senza soluzione di continuità con i piccoli centri di provincia, costituiscono in realtà grandi conurbazioni dove si è creato un nuovo paesaggio che non è più ormai urbanisticamente né città né campagna, dove l’attività non è né produzione né consumo, e il tempo né tempo di lavoro né tempo libero. La figura sociale corrispondente è in positivo quella del professionista “free lance”, dotato di una propria qualificazione derivante da una vasta e multiforme esperienza e da una formazione continua in più campi specifici, esperto in relazioni umane così come delle tecnologie materiali. La sua caratteristica principale è la mobilità e la capacità di adeguarsi rapidamente a nuove situazioni così come a cambiarle. Considerata in negativo questa figura è quella del precario, senza condizioni di esistenza stabili, senza un futuro prevedibile, in balia del mercato non più solo locale ma mondiale. Si tratta di due aspetti contradditori della medesima condizione sociale.

In rapporto allo sviluppo del lavoro sociale questa prospettiva è una ampliamento e specificazione sia della prima forma dell’operaismo, come anche della seconda, che le rende entrambe coerenti con il materialismo storico, in quanto tiene conto del carattere del capitalismo quale fase terminale della società di classe. Sostanzialmente ciò determina un processo di sintesi tra la prima e la seconda forma di operaismo, in un superamento dialettico tra conflittualità e partecipazione, tra rifiuto del lavoro alienato e appropriazione reale dei mezzi di produzione. In questa caratterizzazione il proletariato dei tecnici, in quanto classe produttiva, cioè il proletariato moderno, deve lottare contro il capitalismo per liberare le forze produttive sociali (materiali: le macchine; intellettuali: la scienza; in sintesi, la cooperazione) dalla falsa razionalità capitalistica, cioè dalla sua duplice natura di attività sociale e insieme di fine privato. Ma queste forze, che in estrema sintesi si riassumono nell’automazione e nei servizi sociali, si sono sviluppate a tal punto da costituire un nuovo modo di produzione.
In questa lotta la cooperazione è l’arma decisiva in mano al proletariato, come la scienza lo fu per la borghesia, poichè, la cooperazione è una forza produttiva di cui il proletariato ha effettivo possesso, sia individualmente che collettivamente, della quale non può essere espropriato e dalla quale il capitale non può prescindere. Ciò in quanto la cooperazione è non solo la principale forza produttiva ma proprio per questo la forza materiale che determina e crea la società. La scienza è stata l’arma che ha permesso alla borghesia di scalzare il dominio feudale, ma con lo sviluppo dell’industria questa forza produttiva viene soffocata. Inoltre, dopo che la borghesia ha cessato di avere un ruolo innovativo nella produzione, cioè dopo aver creato la cooperazione planetaria, essa ha un ruolo parassitario in quanto proprietà che si limita a incamerare profitti. Ora la scienza è prodotta come teoria e gestita come tecnica dal proletariato moderno, quello dei servizi. Ma l’asservimento dei produttori e gestori (indiretti: servizi alla produzione, indiretti di secondo grado: servizi sociali) di tale forza produttiva è un freno al suo sviluppo. Un freno oggettivo perché il capitale promuove uno sviluppo selettivo, cioè coerente con i suoi fini, ma anche soggettivo, perché si tratta di un prodotto collettivo, che necessita per gli individui coinvolti di libere relazioni sociali. E’ precisamente in ciò che si configura il principale impedimento che il capitale frappone allo sviluppo delle forze produttive sociali. Infatti questo può avere luogo solamente e necessariamente nella libertà ed universalità delle relazioni sociali. Questo è palesemente necessario per lo sviluppo della conoscenza, così come dei servizi sociali, che sono tutti, in ultima analisi, servizi alla persona. L’assenza del profitto, quindi l’interesse generale come finalità sociale, sono divenuti forze produttive. Questo carattere delle attuali forze produttive è divenuto tangibile proprio con l’integrazione che nel ciclo capitalistico si è verificata tra produzione e consumo. Ciò appare conseguenza del passaggio al lavoro indiretto, cioè ai servizi come produzione dei fattori di produzione: macchine e forza lavoro qualificata, quale ambito egemone del lavoro produttivo. Ambito che è quello dei servizi al consumo per la riproduzione della forza lavoro e dei servizi alla produzione come produzione dei mezzi di produzione, dove il lavoro diretto decade (da cui l’ideologia della fine del lavoro, del rifiuto del lavoro, etc.).

La sintesi

In quanto tale la prima forma di operaismo deve essere considerata superata, in quanto antistorica. Infatti essa riflette un rifiuto immediato e radicale della tecnica, di tipo luddista, in quanto fonte di disoccupazione e lavoro come asservimento ai ritmi delle macchine. Questa corrente costituisce l’ideologia di quella forma di coscienza corrente all’epoca in cui la tecnica era posseduta direttamente dai capitalisti stessi e successivamente dalla classe media. Tale ostracismo implica la negazione di qualsiasi ruolo progressivo al proletariato (almeno secondo la corrente nozione di progresso, e non si voglia chiamare tale la reazione, quale è l’uso corrente) e può terminare solo in un rifiuto radicale del mondo attuale, concepito non come contradditorio, cioè un mondo nel quale “la mano che ferisce è quella che risana”, ma come pura negatività, quindi come realtà non dialettica, priva di superamento, da rifiutare nichilisticamente, per creare arbitrariamente una realtà ex novo, cioè una utopia classica dove viene formulato un progetto fondato su un profetico “dover essere”, di fatto dogmatico e settario, cioè non libero e universale. Tuttavia tale forma di operaismo non può essere abbandonata in quanto se non considera il proletariato come portatore di nuove forze produttive lo pone come portatore della conflittualità, cioè della lotta di classe. Quindi esprime un aspetto del carattere proletario imprescindibile.
La seconda forma di operaismo si radica storicamente in una prospettiva progressiva, cioè nella seconda rivoluzione industriale, che segna la vera nascita della scienza applicata, che in precedenza aveva una esistenza più che altro teorica ed accademica, e aveva accompagnato l’ascesa della borghesia soprattutto sul piano ideologico, mentre la prima rivoluzione industriale aveva avuto carattere prevalentemente empirico. Così anche segna la nascita, oltre che della scienza applicata (macchine utensili, poi automazione), dell’organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo, poi fordismo), e dello stato sociale. Forze produttive queste che promuovono la trasformazione della parte più avanzata del proletariato in addetti ai servizi, cioè in classe del lavoro indiretto.
Anche questa prospettiva non è esente da contraddizioni. Da una parte lo sviluppo delle forze produttive non esce del tutto dall’orizzonte dell’industrialismo, quindi occorre considerare fino a che punto si tratta di forze realmente nuove e pertanto di un mutamento realmente qualitativo. Ma soprattutto tale operaismo autogestionario può arretrare verso il riformismo, come è avvenuto con la rivoluzione consiliare in Germania. Quindi tale operaismo deve essere superato anch’esso, come del resto lo è storicamente. Infatti come la conflittualità porta allo sviluppo delle forze produttive, così tale sviluppo sfocia nella conflittualità. Dunque questi due aspetti della lotta di classe sono sempre compresenti e si trasformano continuamente l’uno nell’altro. Le due forme di operaismo, quella conflittuale e quella gestionale, li esprimono entrambi, però separandoli e talvolta contrapponendoli. In realtà non possono essere scissi in quanto nella realtà sociale uno pone sempre l’altro.
Quindi la contrapposizione tra le due forme di operaismo non ha ragione d’essere. Perciò la teoria dell’alienazione risolve entrambi i problemi sollevati dal materialismo storico e quindi lo completa, superando una contraddizione che in termini di materialismo scientifico è irrisolvibile. Ciò solleva la questione del rapporto tra metodo e linguaggio scientifico e dialettica, fino a che punto sono compatibili, ma non è qui il luogo per affrontare tale questione.

6. CONCLUSIONE

Come sempre il materialismo storico, essendo una teoria prevalentemente qualitativa, non definisce i tempi, in particolare quello necessario a colmare il ritardo storico. In questa fase, corrispondente all’alienazione sociale, l’operaismo può svilupparsi anche in direzioni alternative. Una può andare verso una società classista, cioè della classe dei tecnici come nuova classe dominante e la possibilità che la fine del capitalismo concorrenziale consenta lo sviluppo di una forma di capitalismo tecnocratico dominato da grandi monopoli o anche costituito in un capitalismo di stato più o meno larvato. A ciò corrisponderebbe una società non più fascista o stalinista, ma strutturata in una forma di democrazia plebiscitaria fortemente autoritaria, fondata sulla manipolazione delle coscienze, in una sorta di dittatura sottotraccia. Prospettiva questa tutt’altro che irrealistica, visti questi chiari di luna.
L’altra direzione è quella di una rivoluzione socialista realizzata come sviluppo qualitativo, cioè come superamento della società di classe e fine del ciclo storico corrispondente. E’ questo un evento storico nuovo, che ha come precedenti solo la rivoluzione borghese, quindi interamente da scoprire. Il comunismo si trova di fronte a questo bivio, in cui si gioca interamente il suo futuro. Tuttavia la seconda forma di operaismo, presenta una possibilità di verifica immediata, perchè come ogni teoria qualitativa della transizione, lascia adito ad una prospettiva utopica. Infatti qui può trovare le condizioni per la propria realizzazione un ritorno dell’utopia. Un ritorno però in grande stile, che non sia fuga o separazione, ma creazione all’interno di un mondo che pur sta imputridendo, di una consapevole egemonia fondata su una base materiale superiore, cioè sul possesso reale come “uomini nuovi”, di forze produttive superiori, quindi di una visione del mondo superiore. Si tratta quindi di una prospettiva post-utopica, propria di una classe che ha creato il suo mondo non fuori ma dentro a quello vecchio, e si accinge quindi a farlo proprio assimilandolo a sé, partendo da quello che essa già è, non da un “dover essere”, che non può mai essere, come in realtà deve se vuole porsi come egemone, l’annuncio di una vittoria già conseguita, ma la consolazione per una sconfitta, se non definitiva, tale da allontanare per un tempo indefinito la vittoria.

Valerio Bertello
Torino, aprile 2013.




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